Lettere al giornale

Frisia, gli operatori: "Ci siamo presi cura dei pazienti anche nell'ultimo momento, accompagnandoli, tenendo loro la mano..."

Lo sfogo di 76 operatori che si firmano come "I sopravvissuti della RSA e Riabilitazione Frisia Merate".

Frisia, gli operatori: "Ci siamo presi cura dei pazienti anche nell'ultimo momento, accompagnandoli, tenendo loro la mano..."
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Riceviamo e pubblichiamo integralmente la lettera di 76 sanitari dell’istituto Frisia di Merate che si definiscono «sopravvissuti». Una lettera carica di emozioni, a difesa del loro operato in questa terribile emergenza sanitaria che si è abbattuta anche e soprattutto sulle Rsa.

La lettera dei dipendenti del Frisia

Eccoci. Noi sopravvissuti eravamo qui ad aspettarvi, in questi due lunghi mesi di vostra assoluta indifferenza istituzionale.
Nessuno sembrava voler indagare (o gestire?) la situazione Rsa, eravamo invisibili agli occhi delle istituzioni. Venivano effettuati i tamponi solo a chi veniva ricoverato in ospedale. Abbiamo seguito le direttive aziendali ricevute, che nelle sedi preposte verranno analizzate e giudicate. Ora siete arrivati: bene, abbiamo la vostra attenzione.
Qualcuno vuole sapere se abbiamo fatto tutto il possibile: abbiamo sofferto molto, questo è certo, ma resterete stupiti di quanto abbiamo combattuto. Abbiamo studiato e letto tutto quello che si poteva su questo virus, del quale perfino la comunità scientifica sapeva ancora poco. Noi sanitari tutti delle Rsa, con i nostri pazienti, in questa tempesta, siamo stati lasciati su una scialuppa di salvataggio in mezzo al mare in tempesta. Niente motore, niente remi. C'era rimasto solo il timone. E lo abbiamo usato. La nostra stella polare la conoscevamo bene, sin dall'inizio della nostra carriera. Siamo sanitari, medici, infermieri, oss, terapisti della riabilitazione, educatori: ci siamo dedicati ai nostri pazienti. Professionisti sanitari di serie B, secondo il vostro parere.
Noi non la pensiamo così, noi invece amiamo con ancora più forza la nostra professione in questo ambito. Noi che ci occupiamo di pazienti anziani, di persone che si trovano un po' più in là del vostro target, noi ci prendiamo cura dei nostri pazienti. Voi sanità, ospedali, voi li salvate, li operate, li curate. Voi date tempo, speranza, guarigione. Noi nell'ambito sociosanitario, dove non c'è più spazio per la guarigione, diamo valore al loro tempo, restituiamo dignità alla loro disabilità, accompagniamo e alleviamo le sofferenze quando il tempo ormai sta per scadere. Noi godiamo del cielo blu e dei raggi di sole che stamattina illuminano la stanza, al loro risveglio con dedizione ci prendiamo cura di chi da solo ormai non ce la fa più.
Eccoli qui, pettinati, puliti, profumati, ben seduti, pronti per una nuova giornata. «Quanto è buono il caffè latte stamattina», «Ah la mia infermiera, sempre le solite pastiglie eh?», «Dottoressa, dottore, me lo dà qualcosa per quel dolore?», «Quanto insiste la mia fisioterapista, però oggi sto in piedi bene, guarda che brava sono!», «Oggi l'arrosto, così tenero tenero che riesco a mangiarlo, che buono!», «Signorina, devo andare in bagno»...
Chi non ha parole, invece, ci guarda. Quello sguardo dice tutto, non ha modo di dire quali siano i suoi bisogni, ma sappiamo comunque individuarli e fare in modo che siano garantiti e soddisfatti. Solo piccole cose? Sì, ma sono piccoli preziosissimi momenti (nessuno sa quanti ancora ce ne saranno) e ogni attimo diventa ancora più prezioso.
Ecco perché abbiamo scelto di rimanere in questa struttura Rsa, perché la vita ha valore anche quando, ormai, ne hai più alle spalle che davanti a te. Ci siamo protetti a vicenda sostenendoci, allacciandoci camici, indossando mascherine, imparando a memoria, come una danza, a vestirci e svestirci dalle nostre protezioni. Con il timore quotidiano che i Dpi non bastassero, ci si allargava il cuore quando puntualmente ogni mattina ne arrivava la consegna: anche quel giorno i nostri responsabili e il personale del settore economale erano riusciti contro ogni previsione a garantirne la consegna. Anche per quel giorno avevamo la nostra nuova armatura per poterci difendere dal virus, per poter proteggere, difendere e prenderci cura dei nostri pazienti. È stato così ogni giorno, sino ad oggi.
In questa epoca di barriere, ci siamo fatti ponte con le famiglie dei nostri pazienti, chiamando e videochiamando, facendoci interpreti anche per i nostri pazienti duri d'orecchio, leggendo negli occhi per chi fosse senza parole. Abbiamo fatto tutto il possibile? Abbiamo garantito cure e assistenza, siamo stati vicini ai nostri pazienti, perché in scienza e coscienza prestiamo le cure, e secondo l'etica e i principi della nostra professione, siamo garanti della salute e dei diritti del malato. Abbiamo tentato tutto il possibile perché nessun attimo venisse rubato da questo mostruoso virus. A volte ha vinto lui e ci fa rabbia, tanto quanto a voi, non avercela fatta.
Ci siamo presi cura dei nostri pazienti in ogni momento, anche nell'ultimo, accompagnandoli, tenendo loro la mano, alleviando le loro sofferenze. Abbiamo detto una preghiera, magari in silenzio, avvolgendoli nell'ultimo abbraccio di quel freddo lenzuolo bianco, prima di lasciare per l'ultima volta il reparto. Abbiamo fatto tutto il possibile? Gli occhi blu pieni di lacrime della mia collega che mi ha raggiunto per darmi la notizia dell'ultimo respiro di un nostro paziente terminale, avrebbero saputo convincervi che tutto quello che era nelle nostre possibilità e capacità, lo abbiamo fatto.
Gli altri pazienti, sopravvissuti a questo periodo di pandemia, sono qui anche grazie a noi. Solo questo ci consola un po’. Le Rsa hanno dovuto organizzarsi e affrontare la tempesta. Abbiamo saputo vedere al nostro fianco in queste difficili settimane la grande competenza, la dedizione, la responsabilità e l'amore per il nostro lavoro di medici, infermieri, oss, terapisti della riabilitazione, educatori. Perfino la psicologa arrivava impavida, ci raggiungeva in reparto, "mascherata" come noi, tra le sagome senza volto che si affrettavano in corsia, lei cercava i nostri occhi. Prendeva la nostra mano guantata, fermandola per un momento, chiedendo: «Come stai? Ti va di parlarne un po’?». Bastava questo a sfogarsi, ad alleggerire almeno per un momento il peso sul cuore di questa guerra immane ed inaspettata. Tornati a casa a fine turno ci siamo chiusi in una cameretta, allontanandoci e isolandoci dal conforto delle nostre famiglie per timore di infettarli.
Abbiamo visto i nostri responsabili fare i trapezisti in questa situazione di totale incertezza, cercando soluzioni in ogni modo, senza mai mollare la presa, senza mai perdere il filo.
Pur timorosi, perfino i settori alberghieri garantivano le consegne, bussavano alla porta e lasciavano quanto ci occorreva, poi sparivano prima che aprissimo, come d'incanto!
Giorno dopo giorno, sono passati due mesi dall'inizio dell'allarme pandemia in Lombardia. Forse tra le righe dei Fasas non troverete le nostre lacrime versate, gli sguardi, i silenzi, la fatica. Non troverete i racconti personali di ogni operatore, la sofferenza di chi nemmeno ha potuto esserci perché si è ammalato e ha dovuto combattere da casa, ma in ogni momento avrebbe tanto voluto esserci. Non troverete la nostra rabbia per la vostra indifferenza di questi interminabili giorni. C'erano gli ospedali, pieni di eroi, poi forse anche il territorio. E alla fine, in fondo alla lista, vi siete accorti di noi. Abbiamo fatto tutto il possibile? Giudicherete voi.
Ci fa male che qualcuno metta in dubbio il nostro operato. Ma finalmente siete arrivati. Noi siamo ancora qua, dove ci avevate lasciati, su questa scialuppa siamo quasi arrivati a riva. Un po' più soli, per chi non ce l'ha fatta. Ma più che mai uniti.
I sopravvissuti della RSA e Riabilitazione Frisia Merate

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