"Quel ramo d'ulivo": riflessione sulla Pasqua di monsignor Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara, è originario di Missaglia.
In occasione della ricorrenza di Pasqua, abbiamo chiesto una riflessione a monsignor Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara, originario di Missaglia. E' stata pubblicata sul Giornale di Merate in edicola questa settimana, la riproponiamo anche qui in forma integrale.
Quando se ne tornarono con i rami di ulivo in mano, sulla via che portava a Gerusalemme, gli uomini, le donne e i bambini che avevano accompagnato festanti, agitando le palme recise e i ramoscelli pallidi, quel personaggio che veniva dalla Galilea, seguito da un gruppo di discepoli, chissà che cosa avranno pensato?
Altri messia erano passati negli ultimi anni… Ogni tanto c’era uno che arrivava e attraversava la Città santa, vantando di essere il Messia atteso. Ce n’era stato uno nel 6 dopo Cristo, che proveniva anch’egli dal Nord, un tale Giuda il Galileo, ma era finito male. Molti altri ne erano seguiti, anche oltre il Profeta di Nazareth, come nel 135 un certo Simone Bar Kochba, ma erano intervenuti i Romani con la mano pesante. A Gerusalemme erano abbastanza abituati a veder passare personaggi che vantavano la loro aspirazione ad essere messia, colui che avrebbe portato un regno di pace e di armonia in mezzo al popolo. Questa era la grande attesa per coloro che vivevano nel solco della spiritualità d’Israele.
Negli ultimi tempi, poi, l’attesa s’era fatta crescente, perché al messia veniva attribuita anche la richiesta di liberare dall’oppressore romano. Benché i Romani lasciassero una qualche libertà ai popoli che andavano via via sottoponendo, lasciandoli in parte sotto il controllo dei capi del popolo, tuttavia sappiamo che l’oppressione romana comportava diversi tipi di imposizione, come il pagare le tasse e la leva per il servizio militare.
Quella sera se ne saranno tornati riponendo il loro ramo d’ulivo, sospirando e dicendo: è stato bello, ma è già successo altre volte di rincorrere un sogno. Avevano osservato però una cosa strana: questo “aspirante messia” non aveva un gruppo di discepoli con le spade in mano e strane armature; non erano ben vestiti, né la loro lingua era l’ebraico della città di Gerusalemme, ma parlavano un dialetto della Galilea. Eppure gli abitanti di Gerusalemme erano stati sorpresi dalla strana impressione di un gruppo che non avrebbe fatto nulla di male, ma neanche tanto di buono, perché il loro potere, la loro capacità di intervento, sembrava molto bassa. Forse qualcuno aveva sentito parlare anche del messaggio proclamato da questo “Messia”, tutto incentrato sulla misericordia di Dio e sulla compagnia di poveri e diseredati. Del resto anche il gruppo dei seguaci non sembrava tanto raccomandabile: c’era un cananeo, uno zelota, tanti galilei, e Lui veniva da Nazareth. Ora “che cosa può venire di buono da Nazareth?” (cfr Gv 1,46).
Questa impressione è raccontata ad esempio nel testo della passione dell’evangelista Marco. Gesù parla solo due volte nel suo racconto della passione, all’inizio e alla fine: all’inizio per confermare la pretesa attribuitagli di essere il re dei Giudei, quando Gesù afferma davanti al sommo sacerdote “Io lo sono” (Mc 14, 62), e alla fine per affidare con un grido questa pretesa a Dio: “Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?!” (Mc 15,34).
Suggerisco, allora, solo un pensiero di speranza, perché forse quest’anno abbiamo vissuto in modo drammatico la preparazione alla Pasqua, dopo la pandemia con la tragedia della guerra in Ucraina. Quando depositeremo stasera il nostro ramoscello d’ulivo ritornando a casa nostra, penseremo che per questa nostra vita, interrotta nelle sue “magnifiche sorti progressive”, è bastato un nemico invisibile per rinchiuderci tutti nelle nostre case e un invasore visibile per riempirle di paura! Riponendo il nostro ramo d’olivo, anche noi dovremmo dire che il Signore Gesù non ha vinto le potenze del male, combattendole con le armi, con il potere, con il denaro, ma le ha vinte passando attraverso il male, prendendo la pecorella smarrita sulle sue spalle, facendosi prossimo degli ultimi e delle persone scartate dalla società d’allora.
Anche noi, depositando il ramoscello d’olivo nella nostra stanza, col segreto desiderio che ci protegga, dovremo pensare di poter asciugare una lacrima, se abbiamo perso qualche persona che ci è stata cara; dovremo immaginare che il tempo dedicato ai bambini e ai ragazzi, talvolta anche gli adolescenti, è un tempo buono anche se molto, molto, difficile; dovremo sostenere anche le incertezze che alcuni, e forse non saranno pochi, potranno avere per il lavoro. Quel rametto d’olivo sarà il segno della nostra compassione, capace di guarire dall’interno le fatiche, i dolori, le sofferenze, ma anche di ridare fiducia e speranza a chi ci sta accanto.
Nella Divina Commedia di Dante, di cui abbiamo appena celebrato i settecento anni dalla morte, le tre cantiche si concludono sempre con la parola “stelle” (“E quindi uscimmo a riveder le stelle” - Inferno, XXXIV, 139; “puro e disposto a salire a le stelle”. - Purgatorio, XXXIII, 145; “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. - Paradiso, XXXIII, 145). Nella prima occorrenza, quando il sommo Poeta esce dall’inferno, sfuggito ai gironi della sofferenza, della morte e del peccato, passa attraverso un pertugio tondo, una piccola finestra che gli consente di uscire a vedere le stelle. Che possiamo trovare nelle nostre case questo pertugio tondo per uscire, noi pure, “a riveder le stelle”! Vicino a quel pertugio mettiamo in silenzio quel ramo d’ulivo.
Monsignor Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara