L'artista Bruno Freddi: "Ho problemi di vista, ormai dipingo nella nebbia"
Il pittore "adottato" da Osnago: "La mia arte è molto materica e in questo caso il tatto mi aiuta a sopperire agli occhi"

Una vita intera dedicata all’arte, ancora oggi, anche quando si è trovato a dipingere «nella nebbia» per una malattia che gli ha quasi del tutto tolto la vista.
E’ una storia di passione e dedizione quella di Bruno Freddi, da quasi 30 anni a Osnago e punto di riferimento di un gruppo di intellettuali che negli anni ha dato vita a tante iniziative culturali e anche alla biennale d’arte «La voce del corpo».
Intervista all'artista Bruno Freddi
Dove è nato e in che contesto è cresciuto?
«Sono nato nel 1937 a Mantova, a 200 metri da Palazzo Te e la prima volta che sono stato grande abbastanza per entrarci ho scoperto cosa fosse davvero la bellezza. Sono cresciuto in una famiglia povera, mio papà era operaio e riparava le biciclette, ma essendo antifascista senza tessera non poteva lavorare, così presto si trasferì da solo a Milano. Per un periodo io, mia mamma e mia sorella siamo rimasti a Mantova, poi ci siamo spostati anche noi».
Come si è avvicinato all’arte?
«Ho sempre dipinto, a 14 anni ho fatto la mia prima mostra in un bar a Milano. A casa, quando dopo le medie ho annunciato che avrei smesso di studiare per fare il pittore, mi hanno detto che quello non era un mestiere, ma era un gioco. In qualche modo è vero, l’arte è ancora un gioco per me. A 15 anni ho cominciato a lavorare come orafo in Montenapoleone, ho avuto un grande maestro e ho imparato il mestiere. Dopo sei anni mi sono messo in proprio e ho avuto un grande successo nel mio settore, anche perché realizzavo gioielli unendo ferro e oro e i miei clienti facevano parte dell’aristocrazia milanese».
Come è arrivato in Brianza e come mai ha eletto Osnago a sua dimora artistica?
«Avevo bisogno di uno studio più grande perché avevo iniziato a realizzare tele di dimensioni importanti, così con un compasso ho cercato cosa ci fosse nel raggio di una ventina di chilometri. Sono arrivato in questa corte (in via Cavour, pieno centro paese, con l’ingresso decorato con volti noti di Osnago, come gli ex sindaci Marco Molgora e Paolo Strina, ma anche il cardinal Gianfranco Ravasi e Papa Francesco in bici con falce e martello nel cestino, ndr) e lo stabile dove ora ho lo studio stava crollando a pezzi, l’ho sistemato tutto io. Poi sono andato in Comune e ho scoperto che era stata allestita una mostra di Marc Chagall e ho incontrato l’allora sindaco Molgora che aveva l’orecchino, cosa rara per l’epoca... così ho pensato: “Sono proprio arrivato nel posto giusto”».
A Osnago lei è l’artista per eccellenza, attorno al quale si sono sviluppate realtà importanti, come “La Voce del Corpo”. Come vive questo ruolo?
«Sicuramente è una bella responsabilità, ma devono essere gli altri a dire se sono un punto di riferimento. “La Voce del Corpo” è legata al primo spettacolo di danza butoh, disciplina che ho coltivato insieme allo yoga, che ho organizzato a Osnago. Con il presidente Michele Ciarla, mio grande amico, promuoviamo eventi artistici e culturali, al centro c’è il corpo che parla».
La sua arte veicola spesso messaggi, pensiamo alla recente tela «Gaza», una «Guernica» moderna. Che funzione pensa abbia l’arte in questo senso?
«Penso che il corpo sia sacro e che nel momento in cui si decide di armarsi e sparare a qualcuno non solo si sta uccidendo, ma si sta togliendo una persona buona dalla società perché quelli che muoiono sono quasi sempre i buoni. Nel 2024 sono accadute cose terribili perché le persone non hanno più il controllo di sé e invece vogliono controllare gli altri, esercitare sugli altri il loro potere. Quello che è successo a Gaza mi ha distrutto la mente e il cuore, perché la guerra è una cosa stupida. A chi mi chiede se penso che l’arte salverà il mondo rispondo che l’ha già fatto, perché la bellezza nella quale viviamo, sia quella artistica che naturale, ci insegna la differenza tra giusto e sbagliato».

Da qualche tempo fatica a vedere, come ha influito questo aspetto sulla sua vita personale ed artistica?
«Il 23 aprile 2024 la mia vita è cambiata. Soffro di una malattia che si chiama arterite di Horton: a causa della rottura delle arterie sopra gli occhi non vedo più da quello destro e con quello sinistro è come se fossi sempre “nella nebbia”. Dal punto di vista pratico non posso più guidare e i miei amici mi accompagnano ogni giorno in studio da casa mia, a Montevecchia. Però continuo a dipingere».

E come ci riesce?
«Grazie al tatto. Quando camminavo per Milano da bambino tenevo gli occhi chiusi e toccavo i muri, riuscivo persino a riconoscere le case con il palmo della mano. La mia arte è molto materica e in questo caso il tatto mi aiuta. Negli ultimi tempi è cambiato l’uso che faccio dei colori, sono meno accesi e più malinconici, forse per l’età... in ogni caso li preparo da solo e le mie opere le realizzo ancora in completa autonomia, basandomi sul tatto e su quello che vedo dall’occhio sinistro, anche se ormai è immerso nella nebbia».
Quali sono i suoi prossimi progetti?
«Una mostra antologica vista l’età. Ho 88 anni e ho fatto di tutto: quadri, sculture (alcune anche esposte permanentemente in spazi pubblici a Osnago, come piazza della Pace e la rotonda tra via Roma e via Bergamo ndr) gioielli, la riproduzione della Corona Ferrea, ma anche tante scenografie, costumi teatrali e oggetti di scena. Alcuni non li ho mai esposti ma credo sia giunto il momento. Ho premura; oggi ci sono, domani chissà».
Una premura che, nonostante l’età, ancora lo illumina quando l’amico di sempre Molgora gli dice di aver trovato un posto che potrebbe essere adatto per la sua mostra. «Chiamalo subito» è la richiesta, con un sorriso che, possiamo scommetterci, è lo stesso che aveva all’inaugurazione della sua prima esposizione quando era solo un ragazzino che «voleva fare il pittore».
Gloria Fendoni