Dalla vacanza alla fuga dalla guerra, famiglia ucraina ospitata nella Bergamasca
Sarebbero dovute partire per l'Egitto, ma si sono trovate a scappare verso l'Italia per fuggire dalle bombe.

Il conto alla rovescia per le vacanze era ufficialmente iniziato. In meno di 24 ore tutta la famiglia, per la prima volta al completo, sarebbe salita su un aereo che l’avrebbe portata in quel paradiso terrestre che è Marsa Alam. In Egitto li aspettava una settimana di relax lontano dallo stress del lavoro, della scuola, delle notizie che dicevano che i carri armati russi si stavano facendo sempre più vicini al confine. Ma alle 5.05 del giorno precedente alla partenza un suono assordante ha spezzato in un attimo tutti i loro sogni: la guerra era arrivata.
Dalla vacanza alla fuga dalla guerra
Sedute attorno al tavolo di una sala del municipio, Alina Semenova, 43 anni, con le figlie Maria ed Eleonora, di 22 e 11 anni, raccontano una storia che non sembra vera. Insieme a loro è arrivata a Carvico anche Stefania, la secondogenita di 20 anni, che però è rimasta a casa di zia Iana perché non sta bene. E’ preoccupata: di recente è stata operata ad un seno e forse ha bisogno di un intervento anche all’altro, ma tutte le visite che aveva programmato sono per forza di cose saltate. Alina, invece, è stata più fortunata perché qui in Italia è riuscita ad acquistare i farmaci che le hanno prescritto dopo un intervento all’utero e che in Ucraina non riusciva più a trovare.
Il loro esodo verso l'Italia
Il loro esodo è cominciato quella maledetta mattina del 24 febbraio. «A svegliarci sono stati i primi bombardamenti - hanno spiegato la mamma e le due sorelle, che arrivano dalla città di Boryspil, vicino a Kiev - Hanno attaccato un aeroporto militare a 2-3 chilometri da casa nostra e la prima cosa che abbiamo fatto è stata alzarci, prendere un paio di cose e partire. Ma non abbiamo dimenticato il nostro coniglietto Jony».
Mamma, papà e le tre figlie sono saliti in auto alla volta della Polonia, ma raggiungere il confine era troppo pericoloso in quel momento così hanno optato per il piano B, decidendo di rifugiarsi a casa di parenti lontani in un paesino sperduto fra le montagne.
«Siamo rimasti lì per tre settimane - hanno continuato le rifugiate - Dormivamo su una specie di brandina tutti ammucchiati, perché c’erano anche altri ospiti, e per avere un po’ d’acqua dovevamo andare al ruscello. La sera, poi, non si potevano accendere le luci: luce significa vita, quindi per non farci vedere dai russi chiudevamo tutte le finestre con dei pannelli in legno all’esterno e dentro con delle lenzuola».
Con il passare dei giorni, tuttavia, vivere lì si era fatto sempre più difficile. Nei negozi i rifornimenti erano finiti: il cibo aveva iniziato a scarseggiare e l’unica salvezza erano le uova delle galline nella stalla. Allo stesso tempo la frontiera più vicina distava 500 chilometri e intraprendere un viaggio così lungo non sarebbe stato di certo una passeggiata. Ma alla fine ha prevalso il coraggio e il 16 marzo le quattro donne della famiglia Semenova hanno deciso di mettersi in moto, salutando il papà che invece è dovuto rimanere per difendere il territorio.
«Il viaggio è durato 30 ore, di cui solo 4 le abbiamo passate a dormire e 5 alla dogana. Ogni tanto, poi, riposavamo ai distributori di benzina mentre aspettavamo che arrivassero i rifornimenti - ha rivissuto con la mentre quei momenti concitati Maria, che ha guidato per 1.700 chilometri attraversando l’Ungheria, la Slovenia ed entrando in Italia da Trieste - Siamo arrivati il 17 marzo a mezzogiorno e un quarto».
L'appello per trovare lavoro e dare una mano
Quando Iana, in Italia da 23 anni e residente a Carvico con il marito Roberto Ferrari, ha visto arrivare la sorella e le nipoti non ha potuto trattenere le lacrime. Di gioia, perché erano vive e tra le sue braccia, ma anche di disperazione, perché in quello stato non le aveva mai viste. «Quando venivano a trovarci erano sempre tutte profumate, vestite bene, contente - ha infatti raccontato la zia, che lavora come Oss in una Rsa del Meratese - L’ultima volta che ci eravamo viste era stato il 31 agosto dell’anno scorso per il matrimonio di mia figlia Mayya: eravamo così felici...».
Ora che hanno trovato accoglienza in paese, però, la mamma e le tre sorelle ucraine non vogliono rimanere con le mani in mano. Al contrario, si sono già messe in contatto con il Comune per cercare lavoro ed integrarsi nella comunità rendendosi utili in qualsiasi modo: Alina è una sarta; Stefania un’insegnante di hip hop; Maria è laureata in Economia e si sta pensando di introdurla in un progetto per seguire un bambino ucraino alla scuola dell’infanzia, ma nel frattempo si è anche già messa a disposizione per aiutare a distribuire agli altri profughi presenti in paese i vestiti raccolti grazie alla generosità dei carvichesi; Eleonora, infine, giovedì scorso ha iniziato a frequentare la scuola media.
«Qua si sta bene, ma casa è sempre casa: in Ucraina ci sono i nostri genitori e due fratelli con le loro rispettive famiglie - ha concluso infine Iana parlando a nome delle sue familiari - Non volevamo la guerra, non dovevamo essere liberate da nessuno e ora non vediamo l’ora di ricostruire il nostro Paese che sarà più bello, più forte e rispettato da tutta Europa».