La testimonianza

"Io, infermiere del Pronto soccorso, vi racconto che cos'è la pandemia"

Da eroi a vittime di haters negazionisti, dodici mesi senza arrendersi mai.

"Io, infermiere del Pronto soccorso, vi racconto che cos'è la pandemia"
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Nonostante da un anno sia costretto a respirare in apnea dietro al filtro di una mascherina quasi costante, fa ancora fatica a ricordarsi di indossarla quando esce di casa e, com’è successo a tutti, spesso se ne ricorda solo a metà strada tornando indietro in tutta fretta a recuperarla.

“Io, infermiere del Pronto soccorso, vi racconto che cos’è la pandemia”

Giordana Liliana Monti per Prima Milano

D.M., 56 anni, di professione infermiere, da tempo lavora in un pronto soccorso della città di Milano classificato come “Dae di I livello” che svolge funzioni di spoke nella rete dell’emergenza-urgenza; esegue tutti gli interventi previsti per l’ospedale sede di Pronto soccorso e svolge funzioni di accettazione in emergenza urgenza per patologie di maggiore complessità.

In quanto infermiere in un anno è passato dall’essere uno dei tanti “eroi in corsia” ai quali venivano dedicati smielati post ed enormi cartelloni, all’essere additato quale “untore di una malattia inventata”. Ma, che ci si creda o no, è da tredici mesi che insieme ai colleghi si barda da testa a piedi lavorando senza tregua per assistere chiunque si presenti alle soglie dell’ospedale.
E a distanza di un anno dall’inizio della pandemia, com’è lavorare in un pronto soccorso situato nel cuore di Milano?

Quali sono le difficoltà e qual è la percezione di chi respira quotidianamente la gravità di una pandemia?

Ce lo racconta in questa breve intervista, narrandoci le sue impressioni e il suo vissuto.

Come siete organizzati in turni e siete già stati tutti vaccinati?

“Normalmente siamo cinque per turno su due turni e tre per le notte: in questo periodo per far fronte alla pandemia abbiamo dovuto intraprendere la turnazione di 12 ore con evidente risparmio di personale, essendoci solo due turni: ora complessivamente si lavora qualche ora in più rispetto al monte ore solito, poi conguagliate alla fine dell’anno. Con la pandemia è stato istituito un percorso Covid ad hoc per i pazienti positivi o con sintomi che facciamo pensare ad un possibile contagio ed è stato aggiunto un infermiere che si occupa solo del percorso Covid. Per cui siamo passati a turni da 12 ore con 6 infermieri di giorno e 4 di notte”.
Lui e i colleghi del Pronto soccorso sono tutti vaccinati contro il Covid con entrambe le dosi, solo uno, dichiaratamente no-vax, si è rifiutato di vaccinarsi.

Come funziona l’accesso in pronto soccorso?

“Innanzi tutto vorrei dire che noi siamo un Pronto soccorso piccolo, non di riferimento per le malattie infettive, e il nostro angolo di valutazione è quindi piuttosto parziale rispetto al movimento cittadino. Essendo però un ospedale ubicato nel centro di Milano siamo facilmente raggiungibili sia per le ambulanze che per le utenze a piedi, questi ultimi infatti rappresentano una grande componente della nostra utenza.

Il nostro Pronto soccorso prevede un percorso ‘normale’ e uno per i pazienti Covid: noi da sempre abbiamo due ingressi distinti, visto che c’è costantemente rischio di tubercolosi o altre malattie infettive in un pronto soccorso cittadino. Naturalmente con l’arrivo della pandemia uno dei due ingressi è stato dedicato esclusivamente ai pazienti potenzialmente positivi o già riconosciuti come tali”.

Dopo il picco della prima ondata, c’è stata una riduzione degli accessi da 100 a 60 al giorno per tutte le patologie.

Il problema ora èil sovraffollamento per i pazienti no-Covid perchè il pronto soccorso è sempre pieno.

Tutto il protocollo sanitario anti Covid rallenta il processo e, ad esempio, l’attesa del referto del tampone determina l’allungamento dell’attesa in pronto soccorso per tutti quei pazienti che arrivano per le urgenze non Covid.

Contagi ospedalieri dei sanitari, ne avete avuti molti?

“Nella prima ondata c’è stato un focolaio tra il personale ambulatoriale e di radiologia perché lì sono venuti meno tutti quei presidi indispensabili per proteggersi e non si è fronteggiata prontamente la malattia, anche a causa della poca conoscenza della gravità dei pazienti: quelli della radiologia ne hanno risentito all’inizio perché molti venivano a fare una radiografia al torace senza sapere che si trattasse di Covid.

Noi in Pronto Soccorso, proprio perché a prescindere dal Covid veniamo a contatto da sempre con malattie potenzialmente infettive, siamo sempre (più o meno) stati muniti dei dispositivi di protezione individuale e quindi abbiamo rischiato meno rispetto ad altri reparti. Quando una persona viene con febbre e tosse è sempre stato automatico metterle la mascherina per rischio ad esempio di tubercolosi e così ci siamo tutelati senza neanche saperlo, ancor prima dello scoppio del primo focolaio”.
Nelle ondate successive, solo piccoli focolai nei reparti, qualche collega positivo, ma è possibile che sia stato contagiato fuori dall’ospedale.

Accesso pazienti Covid, come funziona?

“Innanzitutto bisogna distinguere tra chi arriva in Pronto Soccorso in ambulanza e gli utenti che ci arrivano in autonomia. Nel primo caso una valutazione viene già effettuata dagli operatori sanitari presenti sull’ambulanza e quando sappiamo che stanno arrivando pazienti Covid li accogliamo nel piazzale o comunque prima di accedere al pronto soccorso, senza farli entrare in sala di attesa e dirottandoli direttamente nel corridoio Covid.

Nel secondo caso, se gli utenti arrivano autonomamente, a volte sono solo preoccupati di essere stati contagiati ma spesso si presentano con febbre, difficoltà respiratoria e sintomatologia classica del Covid: in questo caso dopo aver preso i parametri del paziente, vengono dirottati nel percorso Covid. Quando il cittadino arriva preoccupato, spesso con la speranza riuscire a ttenere velocemente un tampone, il paziente viene valutato per la sua sintomatologia: quindi se non ci sono elementi concreti per pensare ad un contagio non viene fatto il tampone.

Il compito del Pronto soccorso non è identificare se ci sono pazienti Covid ma soprattutto gestire la sintomatologia, per questo chi è positivo, ma asintomatico non dovrebbe venire in Pronto soccorso, perché oltre ad essere un rischio per gli altri e per sé, noi non siamo reclutati a gestire queste situazioni.

Ovviamente, comunque, se arrivano pazienti Covid noi ce ne occupiamo ma il pronto soccorso non è il luogo dove poterli gestire”.

Gestione dei pazienti Covid una volta entrati in Pronto Soccorso

“Se arrivano in ambulanza il triagista valuta o sull’ambulanza o prima dell’ingresso in pronto soccorso la veridicità dei dati rilevati dai soccorsi e quindi la decisione di far entrare il paziente in un percorso covid. Se il paziente arriva autonomamente dopo aver studiato la sua storia clinica, avergli misurato la febbre e la saturazione si decide se mandarlo nel percorso Covid. La gravità della condizione è invece decisa tramite misurazione della temperatura, della saturazione capillare e rilevazione dei parametri (frequenza respiratoria, affanno ecc.)”.

Una volta indirizzato nel percorso Covid al paziente viene fatta visita mesica che di prassi prevede:

Emogas analisi arteriosa fatto al polso radiale di solito per capire la qualità degli scambi respiratori e altri indici di infiammazione che indicano il sospesso covid;
esami del sangue
radiografia del torace
somministrazione di eventuale terapia sintomatica (come tachipirina, cortisone, ecc.)

“Una volta fatti tutti gli esami il medico si orienta, stabilendo effettivamente se si tratto di codiv o meno e in base a questo viene disposta l’esecuzione del tampone: non necessariamente viene fatto, anche se solitamente è pressoché eseguito a tutti. Il tampone è molecolare (risultato in 12 ore), solo nei casi di forte sospetto si fa quello antigenico per accelerare la destinazione dei ricoveri”.

 

Ospedale diviso in aree, il problema della mancanza dei posti letto

In attesa del responso del tampone il paziente entra in un reparto di “area grigia”, visto che l’ospedale è diviso in Covid e Covid free, prima di essere spedito nei reparti d’interesse una volta scoperta o meno la positività.

“Anche i medici e gli infermieri sono divisi in reparti, ci sono quelli destinati al reparto Covid e gli altri. Il problema che riscontriamo maggiormente è la mancanza di letti nei reparti, in Pronto soccorso c’è poco spazio ma spesso non essendoci posti nei reparti di destinazione i pazienti sono costretti a rimanere qui finché non si liberano”.

Anche in Pronto Soccorso c’è un’area Covid

L’area Covid in pronto soccorso prevede una sala di emergenza detta “sala rossa” e una piccola sala di astanteria dove teniamo 3/4 letti.

“Spesso e volentieri occupiamo velocemente gli spazi disponibili, visto l’esiguo numero di letti e disponibilità: per questo il Pronto soccorso è sempre spesso pieno.

In totale abbiamo 13 letti in Pronto soccorso, un terzo è destinato ai pazienti Covid e due terzi sono adibiti per pazienti non Covid”.

La gestione dei pazienti non Covid in Pronto soccorso

Anche per i pazienti non Covid c’è una sala rossa per l’emergenza, due letti gialli per le urgenze differibili e 6 letti di astanteria per quelli meno gravi che richiedono comunque assistenza.

“Da noi circa i 2/3 dell’utenza è non Covid e 1/3 covid: questo naturalmente varia a seconda del momento, le proporzioni erano ribaltate quando ci sono state le tre ondate passate. In corrispondenza degli aumenti importanti sul territorio nazionale anche da noi abbiamo avuto periodi in cui 2/3 del Pronto soccorso erano Covid”.

Commento personale

“Credo che durante la seconda e la terza ondata eravamo più preparati e non abbiamo avuto quell’emergenza di presidi respiratori come successo durante la prima ondata, né quella gravità di casi condensati nello stesso periodo tale da determinare una vera emergenza nelle terapie intensive o nell’utilizzo dei caschi respiratori.

Molti utenti nelle ultime ondate sono stati trattati sul territorio e quindi non hanno raggiunto il pronto soccorso, come sarebbe avvenuto invece un anno fa. Ora solitamente quando arrivano da noi hanno già fatto qualche trattamento suggerito dal medico del territorio.

Nella prima ondata inoltre c’è stato un netto calo degli accessi in Pronto soccorso e a parte chi aveva problemi respiratori abbiamo visto un calo di tutte le altre problematiche che solitamente affollano la nostra sala d’attesa, come incidenti domestici o brutte cadute: questo significa o che le persone stavano attente o che la paura di andare in Pronto soccorso aveva la meglio sulle cadute.

Dopo la prima ondata questa attenzione a non recarsi “inutilmente” in ospedale non c’è più stata nelle successive: la gente viene anche quando non ce n’è propriamente bisogno tanto che vengono poi classificati come accessi impropri con codici bianchi.

Ci tengo a dire che queste sono mie considerazioni non supportate da dati ufficiali, impressioni che ho confrontandomi con i colleghi e osservando l’utenza durante i triage”.

(In copertina foto di Santimone by Areu Lombardia)

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