Sanità

Covid, nuova variante. I medici dell'Asst di Lecco: "Per ora è più pericolosa l’influenza"

Intervista al dottor Marco Soncini, direttore del Dipartimento medico e al dottor Luciano D’Angelo, direttore del Pronto Soccorso di Lecco

Covid, nuova variante. I medici dell'Asst di Lecco: "Per ora è più pericolosa l’influenza"
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Covid, una nuova variante sta contagiando diversi italiani proprio a ridosso delle ferie estive. Ma i medici dell'Asst di Lecco per il momento rassicurano: "E' più pericolosa l'influenza".

La subvariante Omicron: contagiosa ma meno patogena

Ora che il virus è stato equiparato a una semplice influenza, annullare una vacanza senza costi è più difficile se non addirittura impossibile. La nuova subvariante Omicron, del sars Cov2, Kp3, sembra essere più contagiosa ma molto meno patogena delle precedenti. Di sicuro la gravità della situazione dipende dal grado di immunità personale e da quadro clinico complessivo.

Nuova variante Covid

In caso di fragilità i tempi per arrivare alla guarigione, si possono dilatare. Gli americani in caso di contagio mantengono 5 giorni di isolamento e mascherina, in Italia le cose vanno diversamente. Una cosa è certa però, ormai il virus non spaventa più, tanto che il Ministero della salute ha fatto decadere, dal 1° luglio scorso, l’obbligo delle mascherine nei reparti con pazienti fragili.

Un ritorno alla normalità? Ne parlano il dottor Marco Soncini, direttore del Dipartimento medico e al dottor Luciano D’Angelo, direttore del Pronto Soccorso di Lecco, intervistati da Prima Lecco.

Da sinistra: il dottor Luciano D'Angelo, il dottor Marco Trivelli e il dottor Marco Soncini

«L’uomo - l’esordio di Soncini - tende a dimenticare situazioni di cui si è parlato troppo e che hanno fatto troppo male. Se penso al 2020 mi tornano in mente le immagini di un secolo prima quando i medici indossavano le stesse mascherine per la spagnola. La situazione era analoga: barelle ovunque, esposizione mondiale. Nessuno poteva prevedere la piega che avrebbe preso la malattia. Tutti ricordiamo le affermazione come, “Ma sì è un’influenza” che poi invece ha segnato la vita di tutti tra lockdown e isolamento. Io sono milanese, ricordo ancora il tragitto lungo la Valassina deserta e i turni estenuanti. C’è stato poi un momento in cui avevamo in ospedale, solo pazienti covid. Con ripercussioni importanti e la successiva rincorsa di tutto quello che non si è potuto fare in quel momento. La congiunzione tra ospedale e territorio è stata una novità assoluta».

Dal punto di vista medico quali sono state le innovazioni?

«Sicuramente il fatto di sfruttare maggiormente la tecnologia, con la possibilità di agire anche da remoto, per monitorare e misurare la cronicità dei pazienti».

Ci sono episodi legati al covid che le sono rimasti impressi?

«Della drammaticità di quei momenti fatico a ricordare il giorno per giorno, perché sono stati più di due anni. Non si possono dimenticare le ambulanze in coda con i malati a bordo in attesa di una risposta».

E oggi?

«Oggi ci sono le medicine e la possibilità di non ricoverare il paziente con il covid. Non ci sono più quelle situazioni di grave insufficienza respiratoria e la gestione è rassicurante. La nostra vita ha ripreso il suo corso, il virus non fa più paura anche se non si può certo affermare che sia scomparso. Infatti ci sono mutazioni, la perdita della gravità però la vediamo tutti. E’ una condizione che rientra nel normale andamento delle infezioni che popolano il nostro mondo».

E quanti casi covid ci sono attualmente?

«Pochissimi, tanto che oggi non trova più nemmeno il test del covid nei supermercati».
Aggiunge il dottor D’Angelo: «In una Regione come la Lombardia, con poco più di dieci milioni di abitanti, ormai siamo al livello di meno di 400 casi alla settimana e i ricoverati in Terapia intensiva sono, sempre a livello regionale una quarantina, ma non tanto per il covid in quanto pazienti fragili con altre condizioni. Anche l’apparente segnalazione di qualche caso in più di queste settimane non ci preoccupa. Il virus è diventato endemico, che vuol dire che si è adattato alla popolazione quindi continuerà ad essere, presente tra noi con delle mutazioni, ci auguriamo poco pericolose, ma questo fa parte dell’interazione che ha il genere umano con il covid. In questo momento storico è più pericoloso il virus influenzale del coronavirus».

Cosa è cambiato?

«E’ cambiata la popolazione, che adesso è largamente vaccinata, sono cambiate le nostre conoscenze e la disponibilità di farmaci che sono efficaci. Con il covid abbiamo fatto un bagno di umiltà perché come medici, ci siamo scoperti inermi. Con tutta la nostra tecnologia e con il progresso scientifico è bastato un microorganismo per metterci in crisi. E’ stato chiaro che la soluzione era lavorare tutti insieme. Al di là della linea calda, fatta da urgentisti, internisti rianimatori si faceva il giro dei reparti covid con urologi, oftalmologi che si sono prestati come tutti a dare una risposta. In quei momenti abbiamo sentito la vicinanza con la popolazione che ci portava le pizze, le arance i dolci. Gesti che abbiamo conservato nel cuore».

E cosa è successo dopo?

«C’è amarezza nel vedere che passata l’emergenza le persone si sono dimenticate e hanno ripreso ad avere degli atteggiamenti non sempre corretti».

Come mai non sono più necessarie le mascherine?

«Sarebbero necessarie nell’ottica di ridurre la circolazione degli agenti esogeni. Ma è anche un po’ una questione di cultura. In Asia le mascherine sono all’ordine del giorno».

Qual è l’attuale situazione in Ps?

«C’è una modesta recrudescenza del virus che dà qualche problema nei pazienti fragili, ma in realtà è un po’ come avere a che fare con l’influenza».

Quindi non c’è da preoccuparsi?

«Da preoccuparsi direi di no, ma è necessario mantenere un atteggiamento ragionevole nei confronti delle vaccinazioni, non solo per quanto riguarda il covid, ma in generale. Mi rivolgo soprattutto ai soggetti fragili: è sciocco non aderire a pratiche vaccinali che garantiscono una protezione».

Durante il primo periodo del covid quante ore lavoravate?

«Ricordo che nei primi venti giorni il mio turno era di 16 ore al giorno e ogni giorno si doveva organizzare la turnistica, l’assistenza e inventarci nuovi reparti».

Qual è stata la cosa più difficile?

«Il non sapere cosa fare e nel nostro mestiere è assurdo. Anche nelle malattie più gravi abbiamo delle risorse. E poi non si è mai vista tanta produzione scientifica basata su poche evidenze pubblicata tra l’altro su riviste di livello internazionale».

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