La caccia al capro espiatorio nelle case di riposo è deleteria e ingiusta
Di Laura Campanello.
Al tiro al bersaglio ingaggiato dai media contro i colleghi che lavorano nelle Rsa del territorio, ha deciso di rispondere prendendo pubblicamente le loro difese. «Lo faccio per dovere civile e politico - afferma decisa Laura Campanello, che lavora come consulente etica presso la Rsa di Villa dei Cedri a Sartirana - perché trovo questa caccia al capro espiatorio un gioco deleterio per tutte le persone coinvolte, e soprattutto ingiusto nei confronti degli operatori delle Rsa che, pur con tutte le difficoltà causate dall’epidemia, nell’emergenza hanno fatto turni folli per sostituire chi non c’era e si sono messi in auto quarantena per la sicurezza dei propri familiari, e ora, esausti, ricevono in cambio false accuse che distruggono tutto quello che hanno fatto prendendosi cura, in alcuni casi per anni, dei nostri cari a cui si erano pure affezionati». Di seguito la lettera in forma integrale.
Li abbiamo protetti, li abbiamo affidati a chi, già da mesi o da anni si occupava di loro e poteva continuare a farlo al posto nostro. Abbiamo chiesto alle case di riposo di sostituirci con i nostri parenti anziani al 100% e lo hanno fatto. Nella maggior parte dei casi al meglio.
Velocemente queste strutture hanno recepito quanto veniva chiesto o imposto dalle direttive statali e regionali e fatto ciò che era in loro potere fare per tutelarli nei modi migliori, con i presidi protettivi che avevano a disposizione, adattandosi man mano agli indirizzi che avevano preso il via dall’idea che «è poco più di una influenza» e che si è invece nel tempo rivelata una malattia che può uccidere, soprattutto chi è fragile.
Sappiamo poi che sono state necessarie anche delle scelte etiche faticose per i professionisti, è stato indispensabile decidere che alcuni soggetti non avevano la precedenza nelle rianimazioni, perché il sistema sanitario non è riuscito a reggere l’impatto del numero di pazienti che necessitava l’intubazione.
Gli operatori, nonostante la paura di ammalarsi, nonostante i turni che sono aumentati per coprire chi non c’era e si ammalava, hanno sempre garantito non solo le cure primarie ma anche il monitoraggio, l’assistenza, la presenza affettiva a tutti gli ospiti e quando riuscivano a farlo l’hanno garantita anche ai parenti, senza mai negare una telefonata, spesso una videochiamata, un conforto e anche un modo, per quanto parziale e insufficiente, di vivere anche il congedo dell’addio.
E a questi addii, a sentire gli ultimi affaticati respiri dei nostri vecchi, ci sono stati loro, umani tra gli umani che soffrono di fronte alla morte, con la loro fragilità e la loro disponibilità, alcuni formati ad accompagnare gli ospiti nel processo del morire, altri meno, alcuni con il conforto di essere competenti e pronti ad applicare le cure palliative, altri purtroppo meno preparati, nonostante la legge 38 che le garantisce a tutti sia del 2010.
E così si sono trovati da soli a reggere sulle loro spalle tutto quello che noi gli abbiamo affidato di prezioso, di unico, di insostituibile. E lo hanno fatto, e lo stanno ancora facendo, rinunciando alla vicinanza dei loro famigliari per paura di poterli infettare.
Non è quindi affatto corretto ora scagliarsi contro queste strutture, i loro direttori e i loro operatori, perché sarebbe come fargli vivere oltre al danno – col quale dovremo aiutarli a fare i conti perché sono esausti ed emotivamente provati come tutti gli operatori sanitari in questo momento – anche la beffa. La beffa di diventare i capri espiatori di una società che non sa gestire le emozioni scomode e le butta addosso a qualcun altro. Capri espiatori di un sistema che non era pronto – sempre ammesso che lo si potesse essere fino in fondo – a gestire la pandemia da Coronavirus. Capri espiatori di un sistema vittima di una cultura che ha negato il morire e la morte per tutto l’ultimo secolo e ora pretende il diritto non solo di occuparsene ma di controllarlo e giudicarlo, di un sistema che quando avrebbe potuto imparare ciò che ci sarebbe stato tanto utile in questo periodo, cioè la preparazione dei cittadini e dei sanitari anche sulle cure palliative e le direttive di trattamento (legge 219/17), le ha relegate a poco più che orpelli di una pratica di cura che ora ha compreso che proprio queste questioni sono ciò che serve e servirà ai cittadini e agli operatori per una sanità di qualità, emergenza o no, e per una società civile e matura, educata tanto di fronte alle cose della vita quanto di fronte alle cose della morte.
Certo, verrà il tempo della ricerca delle responsabilità – e non dei colpevoli – verrà il tempo della comprensione di ciò che è accaduto per gestire meglio il proseguimento di questa storia o – Dio non voglia – una nuova futura pandemia, ma non è cercando i colpevoli e giudicando con uno sguardo semplicistico e troppo parziale che si imparerà qualcosa dalle esperienze, specie quelle tragiche come questa. Se volgiamo onorare i morti, dargli degna sepoltura, dobbiamo insieme a loro onorare chi ne ha avuto cura, chi ha raccolto il loro ultimo sguardo e con la sofferenza che l’uomo ha davanti ad un altro uomo che muore non ha girato la testa dall’altra parte e ha praticato la pietà. E allora da qui, potremo ripartire. Già oggi.
Laura Campanello (Consulente etica presso la Rsa Villa dei Cedri)